I documenti della Commissione Europea definiscono la “Social Innovation” come un’innovazione che è sociale sia negli scopi sia nei mezzi utilizzati per raggiungerli. Le innovazioni sociali sono nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che incontrano bisogni sociali (in maniera più efficace delle alternative) e allo stesso tempo creano nuove relazioni sociali e nuove collaborazioni”. Quindi sono idee che rispondono a bisogni e creano relazioni. Idee “sociali” sia per l’ambito di azione sia per il metodo utilizzato per realizzarle.
Questa attenzione crescente della Commissione Europea per l’innovazione sociale è chiaramente legata alle criticità sociali della fase storica che stiamo attraversando, caratterizzata da nuovi bisogni sociali (pensiamo alle nuove forme di povertà, all’assottigliamento della classe media, alle modifiche dei sistemi di welfare conseguenti ai cambiamenti demografici) che necessitano di nuove risposte, elaborate senza aggravare bilanci pubblici sempre più sofferenti e messi alla prova dalla crisi economica.
Torino ha dato e può ancora dare il meglio di sé in ambito sociale.
A partire dalla storia ottocentesca della città, che ha saputo creare modelli poi esportati in tutto il mondo, strappando i ragazzi dalle strade, attivando iniziative di alfabetizzazione di massa, stipulando i primi riconoscimenti giuridici della pluralità religiosa.
Torino era all’avanguardia nell’800 su queste cose e può esserlo anche oggi, perché la solidarietà, il lavoro silenzioso per gli altri, l’accoglienza, sono patrimonio intimo dei torinesi, di nuova e vecchia generazione. Lo raccontano le grandi storie del nostro Terzo Settore e la capacità “di tenuta” del welfare cittadino in questi anni di crisi. Lo testimonia la presenza a Torino di un ecosistema ideale per l’innovazione sociale, fatto di un dinamico e radicato volontariato sociale, di un vivace sistema di cooperazione, di solide reti di imprenditorialità sociale, di competenze tecnologiche diffuse e di Fondazioni bancarie molto attente a questi temi.
La politica può continuare a raccogliere e governare questa eredità per tradurla in politiche. Con uno stile improntato alla serietà e al metodo che contraddistinguono i Torinesi, uniti a un po' di creatività e coraggio.
Cercando strade nuove, sempre all’insegna della sostenibilità.
Facendo i conti con la realtà per non alimentare false aspettative o rincorse al passato.
Partendo dall’attuale scarsità di risorse pubbliche per ri-vedere il modello dello Stato sociale adattandolo alle condizioni dell’oggi.
Con l’umiltà di cercare le buone pratiche realizzate altrove, di riconoscere le esperienze positive esterne al settore pubblico ed eventualmente recepirle o integrarle, di ascoltare le idee frutto dell’elaborazione universitaria.
Con l’orgoglio di svolgere appieno la funzione pubblica di Stato abilitatore e garante, uno Stato che definisce le regole del gioco e la regia, facilita le reti tra esperienze pubbliche diverse e tra esperienze pubbliche e private, che governa la realizzazione dei progetti in un’ottica di sussidiarietà circolare.
Con la convinzione culturale che in un momento di scarsità di risorse si deve comunque in qualche modo investire sul welfare, che non è solo da considerarsi in chiave riparativa e residuale per lo sviluppo di un territorio, ma è parte di un paradigma economico virtuoso che contribuisce al benessere della popolazione. Di welfare si deve parlare non solo per fare le limature di bilancio e far quadrare i conti, ma anche per rafforzare quei percorsi di sviluppo economico e occupazionale che il welfare offre.
Con la capacità di affrontare una situazione contraddistinta allo stesso tempo da sfide sempre più impegnative e risorse sempre più scarse con una logica progettuale: coinvolgimento degli stakeholders nella definizione degli obiettivi, sperimentazione di nuovi modelli, condivisione di buone pratiche, ascolto dei beneficiari.
Continuare a progettare e non solo mantenere l’esistente.
Lo slogan “non ci sono i soldi” può essere un alibi per smantellare un sistema di welfare che in questi anni ha dato tanto all’Italia. Oppure può essere l’occasione per ideare modi nuovi per trovare i soldi o per rendere più strategica e selettiva la spesa pubblica.
Sapendo che nessuno è felice da solo e che la politica ha il dovere di adattare i modelli di welfare ai nuovi bisogni per garantire la tenuta del tessuto sociale.
Negli ultimi anni ho acquisito una specializzazione sul credito allo sport grazie al mio lavoro in Banca Prossima, la banca del gruppo Intesa Sanpaolo dedicata agli enti no profit.
Un terzo degli enti no profit italiani è rappresentato da enti sportivi e questo dato ci dà un’idea del peso che lo sport esercita in ambito sociale. Oltre ad offrire molte opportunità economiche e di promozione territoriale, attraverso gli eventi di turismo sportivo e di grande agonismo, è soprattutto nella pratica quotidiana dello sport di base che emergono straordinarie potenzialità sociali.
Da uno sguardo d’insieme sulla situazione torinese, emerge un mosaico di managerialità positive, risorse volontarie, passione, competenza progettuale e pedagogica.
Emerge anche un patrimonio molto ricco di impiantistica sportiva pubblica comunale (Torino ha più impianti di Milano) ma per circa il 70% datato e bisognoso di essere ristrutturato. Impianti molto energivori o sotto-utilizzati, non più rispondenti alla moderna evoluzione delle pratiche sportive, privi di spazi a norma destinati al pubblico o di attività accessorie funzionali alla sostenibilità economica (come i servizi di ristorazione), disseminati di barriere architettoniche
Fare politiche per lo sport, oggi, a Torino, non può prescindere dal fare una politica seria dell’impiantistica sportiva. Queste strutture sono infatti indispensabili ad una pratica moderna, aperta anche ai portatori di handicap, attenta al risparmio energetico, svolta in sicurezza e nel rispetto della normativa vigente. Gli impianti sportivi sono beni di tutta la comunità e tutta la comunità deve preoccuparsene anche se sono affidati a dei privati.
Questi bisogni del mondo sportivo sono uno stimolo ad esplorare nuove piste di lavoro.
Nella definizione della Banca Mondiale l’obiettivo del Local Economic Develpment (LED) “is to build up the economic capacity of a local area to improve its economic future and the quality of life for all. It is a process by which public, business and nongovernmental sector partners work collectively to create better conditions for economic growth and employment generation.”. Un processo quindi di miglioramento della capacità economica di un territorio locale, coinvolgendo settore pubblico, settore imprenditoriale e Terzo Settore, per creare le condizioni della crescita economica ed occupazionale. Un intreccio tra politiche di sviluppo, metodo progettuale, conoscenza del territorio e visione internazionale.
Torino in questi ultimi 20 anni ha fatto molto per cambiare pelle e trasformarsi da one company town in città dalle molte vocazioni (manifatturiera, aeronautica, universitaria, sociale, turistica, culturale ecc.), ma lungo è ancora il cammino per rendere questo territorio più connesso, più aperto, più ricco e più internazionale.
Una Torino più connessa: servono ulteriori collegamenti infrastrutturali perché Torino sia meno isolata e fisicamente meno lontana dagli altri poli di sviluppo italiani ed europei.
Una Torino più aperta: serve un ulteriore investimento nella logica progettuale applicata alla programmazione politica. Il grande lavoro dei Piani Strategici susseguitisi negli anni può esprimere nuove potenzialità attraverso un coinvolgimento più trasversale degli stakeholders cittadini, e non solo cittadini. La logica progettuale (caratterizzata dall’analisi del contesto, dalla rilevazione delle esigenze del territorio, dalla definizione del progetto - obiettivi, struttura, articolazioni, partenariati, rete …, dalla definizione degli strumenti, ecc.) può essere rafforzata dall’utilizzo di nuovi gruppi di lavoro ben coordinati e rappresentativi del tessuto sociale nelle sue varie sfumature.
Una Torino più ricca: serve un ulteriore investimento progettuale e finanziario sulla coesione sociale. Troppi sono i nuovi poveri che la crisi ha lasciato dietro di sé, troppi i cassa integrati, troppe le differenze nella qualità della vita (si pensi alla differenza nei tassi di mortalità segnalati dall’ISTAT) tra i diversi quartieri.
Una Torino più internazionale, che sappia affermarsi come “una piccola città dalla vocazione internazionale”. Internazionale nei numeri dell’export, nell’attrattività di investimenti, nella presenza di studenti stranieri, nella conoscenza delle lingue dei suoi abitanti, nella capacità di intercettare l’opportunità dei fondi europei, nella promozione di iniziative culturali, religiose e sportive di richiamo transfrontaliero.
Una Torino che si vuole bene e non ha paura di guardare al futuro, capace di restare fedele alla modestia dei toni e alla grandezza dei fatti.